“Nel corso degli ultimi anni, soprattutto nei casi di separazione conflittuale, la giurisprudenza ha dedicato particolare attenzione a quella che tecnicamente viene definita PAS (Sindrome di alienazione parentale), consistente in comportamenti di uno dei genitori (genitore alienante) finalizzati a mettere in cattiva luce, plagiare, manipolare i bambini contro  l’altro genitore (genitore alienato), utilizzando quindi subdolamente i minori come strumento di punizione per l’avvenuta separazione.

Si tratta di una “programmazione”, “indottrinamento” dei figli da parte di un genitore attraverso l’uso di espressioni denigratorie, false accuse di trascuratezza, violenza o abuso, riferite all’altro genitore. La costruzione di una falsa realtà familiare di terrore e vessazione genera nei figli profondi sentimenti di diffidenza, odio, paura, verso l’altro genitore e contemporaneamente comporta un allineamento del bambino proprio  con il genitore “alienante”. Nei casi più gravi, i minori arrivano a rifiutare qualsiasi tipo di contatto, anche semplicemente telefonico, con il genitore alienato, con reazioni di rigetto nei confronti di quella figura parentale.

Teorizzata da Richard Gardner, medico americano, la Pas è stata oggetto di dibattito ed esame (sia in ambito scientifico che  giuridico) fin dal momento della sua proposizione nel 1985. A sostegno di chi afferma l”inesistenza della PAS come vera e proprio sindrome viene utilizzato quale argomento principale (anche se non esclusivo) la mancanza di un riconoscimento formale di questo disturbo all’ interno delle più rilevanti classificazioni internazionali prima tra tutte quella contenuta nel DSM-IV   (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders). Tale mancato riconoscimento formale della PAS come vera e propria sindrome a livello nazionale (la Pas  non è una sindrome riconosciuta né dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, né dal ministero della Salute) ed internazionale ne rende particolarmente difficile il suo riconoscimento nell’ambito giuridico.

È evidente quindi che la P.A.S. presenti dei confini non esattamente certi e definiti, e ciò comporta per il giudice la necessità di un’attenzione e valutazione molto più rigorosa rispetto a qualsiasi altra forma di disagio supportata invece da un indiscusso riconoscimento scientifico.

Con la rivoluzionaria sentenza n. 6919 /2016 la Cassazione statuisce che non compete alla Corte dare giudizi sulla validità o invalidità delle teorie scientifiche sulla PAS, ma spetta ai giudici invece capire e adeguatamente motivare sulle ragioni dell’ostinato rifiuto del padre da parte della figlia, utilizzando i comuni mezzi di prova tipici e specifici della materia – incluso l’ascolto del minore – e anche le presunzioni , qualora un genitore denunci comportamenti ostativi dell’altro genitore, che provocano l’allontanamento morale e materiale della prole da sé.

È una sentenza molto importante, perché evidenzia come il fine ultimo riguardo le pronunce sull’affidamento della prole è preservare il diritto alla bi-genitorialità, inteso come una esigenza primaria e fondamentale del minore di ricevere affetto, cura, attenzione, educazione e istruzione da entrambi i genitori.

Certamente non è possibile negare che soprattutto nelle situazioni di maltrattamento, l’alienazione genitoriale può essere utilizzata in maniera strumentale dai padri per screditare quelle donne che in sede di separazione richiedono protezione a favore dei figli che si rifiutano di incontrare i padri proprio perché traumatizzati dai loro comportamenti violenti. Il ricorso all’alienazione parentale potrebbe finire dunque per non riconoscere il trauma dei bambini e delle bambine e per colpevolizzare invece la madre (già vittima di violenza) ritenendola responsabile di comportamenti inadeguati. Un richiamo all’Italia in questo senso era stato presentato nel 2011 dal Comitato CEDAW delle Nazioni Unite che aveva invitato le autorità italiane ad arginare l’utilizzo nei tribunali di riferimenti alla “discutibile teoria della PAS” per limitare la genitorialità materna (Comitato CEDAW, 2011, paragrafo 51).

Ed il ddl Pillon va oltre: prevede che quando il minore rifiuti il rapporto con uno dei genitori, il giudice sanzioni l’altro «pur in assenza di prove fattuali o legali», come dice esplicitamente il testo. Considera cioè automaticamente le accuse contro il genitore violento come il risultato di un processo di alienazione messo in atto dall’altro genitore, e propone una logica punitiva nei confronti dei minori considerati automaticamente inattendibili.

Il DDL, inoltre, all’art. 18, prevede che nel caso un genitore insista nell’opporsi alle frequentazioni del bambino da parte dell’altro con una “condotta pregiudizievole” , senza una valutazione tecnica preventiva sulla reale presenza dell’alienazione parentale e della condizione psichica o anche nel caso in cui sia il bambino stesso a “mostrare rifiuto su qualsiasi forma di relazione con uno dei genitori”, il giudice può disporre con un provvedimento d’urgenza la residenza del bambino presso l’altro genitore o il collocamento in comunità del bambino. In tale struttura il minore parteciperà ad “uno specifico programma per il pieno recupero della bi-genitorialità”.

Certamente, quali saranno le evoluzioni anche rispetto al ddl Pillon, auspichiamo che la tutela del minore assuma  sempre valore primario e non ceda  il passo a visioni pericolosamente adulto-centriche. Ciò che non è in discussione infatti è che la violenza dei genitori distrugge, sempre,  i figli”.

Non hai avuto modo di scegliere i genitori che ti sei trovato, ma hai modo di poter scegliere quale genitore potrai essere.”

Avv. Francesca R. Passalacqua

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